Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris.
Nescio,
sed fieri sentio et excrucior.
Odio
e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai.
Non
lo so, ma sento che accade e mi tormento.
È un carme scritto da Catullo per
Lesbia, il suo amore, il cui vero nome è Clodia. È un amore contrastante.
L'autore combatte continuamente tra due sentimenti opposti e passa dall’uno all’altro
con una facilità sconcertante. Ama Clodia perché ormai è il suo tutto e la sua
ragione di vita, la odia perché l’amore non è ricambiato, lei lo vede solo come
uno dei suoi tanti clienti. Quello che Catullo sta cercando è un amore
impossibile da raggiungere con lei, quello che riesce ad avere è solo l’amore
di una notte, una notte per lui di grande importanza, ma per lei, uguale a
tante altre.
Sa di sbagliare, sa di non dover più pensare a lei, ma ormai è
troppo tardi, ormai non gli rimane altro che il tormento. Questo è un amore che
non potrà vivere come lui desidera e per questo comincia ad odiarlo. È difficile
amare qualcuno che non si può amare, è uno degli effetti collaterali dell’amore,
un sentimento tanto bello quanto letale, bello quando trovi la persona che
rappresenta il pezzo mancante del tuo puzzle, letale quando pensi di aver
trovato questo pezzo, ne sei sicuro, ma alla fine non combacia perché
appartiene ad un altro puzzle. Incominci, così, a provare il sentimento
opposto, cominci ad odiare tutto e tutti. L’uomo in generale preferisce odiare
perché ha la certezza di poter solo far soffrire, piuttosto che amare, poiché
ha la certezza che prima o poi toccherà a lui soffrire. La sofferenza di
Catullo si legge anche nella rivisitazione del fr. 31 V di Saffo, poetessa d’amore
del mondo greco.
Catullo - Carme 51
Ille mi par esse deo videtur, Mi sembra che sia pari ad un dio
Ille, si fas est, superare divos, Se è lecito, mi sembra che superi gli dei,
Qui sedens adversus identidem te Colui che, sedendoti di fronte,
Spectat et audit continuamente ti guarda e ti ascolta
Dulce ridentem, misero quod omnis mentre ridi dolcemente, cosa che a me misero
Eripit sensus mihi: nam simul te, strappa tutte le facoltà: infatti non appena
Lesbia, aspexi, nihil est super mi ti vedo, Lesbia, non mi rimane più
Tum quoque vocis. neppure un fil di voce
Lingua sed torpet, tenuis sub artus ma la lingua si intorpidisce, un fuoco sottile
Flamma demanat, sonitu suopte si insinua sotto le membra, le orecchie
Tintinant aures, gemina teguntur rimbombano per un suono interno, gli occhi si
Lumina nocte. ricoprono di una duplice notte.
Otium, Catulle, tibi molestum est: L'otium, Catullo, per te è un peso
Otio exultas nimiumque gestis. Per l'otium sei troppo felice, ti dibatti.
Otium et reges prius et beatas L'otium già mandò in rovina in passato re e
Perdidit urbes. città felici.
Sono versi rivelatori della passione di Catullo e della gelosia che prova nei confronti del "lui" che guarda e ascolta la sua amata. Vorrebbe essere quell'uomo, vorrebbe non soffrire come sta soffrendo in questo momento, vorrebbe poter ritrovare la sua voce per parlare con lei, vorrebbe eliminare quel suono che rimbomba nelle sue orecchie per riascoltare la sua voce, vorrebbe tornare a vedere per osservarla, ancora e ancora, ma non può; il fuoco sotto le sue membra, come la notte nei suoi occhi, sarà perenne, perché sa di star rincorrendo un miraggio. L'oggetto del desiderio è troppo lontano, riesce a sfiorarlo qualche volta, e si culla per poco tempo nella felicità del momento, ma quella temporanea felicità lo porterà alla rovina come già ha portato alla rovina regni che un tempo erano stati felici.
A.L.
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