Catullo, carme 101
Multas per gentes et multa per
aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale.
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale.
Dopo aver viaggiato per molte
genti e per molti mari
sono qui, o fratello, per
portarti queste misere offerte funebri,
per donarti l’ultimo dono della
morte
e per parlare invano alla tua
cenere muta,
dal momento che la sorte mi ha
portato via da te, proprio te,
povero fratello indegnamente
strappatomi.
Ora tuttavia, queste offerte, che
secondo l’antica usanza degli avi
ti sono state portate come triste
dono funebre,
accettale, grondanti di molto pianto
fraterno,
e per sempre, fratello, ti
saluto: addio!
Nonostante la realtà in cui vive Catullo sia quella di un amore non corrisposto,
poiché è innamorato di una donna che non potrà mai ricambiare questo
sentimento, l’unico carme veramente intriso di dolore che scrive è quello
dedicato al fratello, ormai deceduto. Forse perché l’amore che si prova verso
un membro della propria famiglia supererà sempre qualsiasi tipo di sentimento,
sarà sempre più forte di ogni difficoltà, di ogni ostacolo che si presenta dinanzi
a noi.
Nel componimento vi è una contrapposizione, perché il poeta afferma di
parlare invano alle ceneri del proprio caro, ma nonostante ciò percorre un lungo viaggio
per raggiungere la tomba del fratello, per dedicargli un ultimo saluto. È come
se Catullo non riuscisse a realizzare la perdita del fratello e cercasse a
tutti i costi di creare un dialogo, un contatto con lui; oltre a soffrire per
il decesso, soffre anche per il modo in cui è morto il fratello, ovvero lontano
dalla patria, ed infatti utilizza l’avverbio “indegnamente”, indigne. Catullo termina il
carme con le parole “ave atque vale”: “ave” è il saluto che i Romani si
scambiavano quando si incontravano, “vale” quello con cui si lasciavano,
momentaneamente o per sempre.
Oggi spesso risulta facile perdere il senso della famiglia, non
metterla al primo posto, pensare di più agli amici e al divertimento. Il carme
ha riportato in me l’importanza che si può attribuire solo ad un valore come
quello familiare. Dunque ogni volta, prima di commettere errori nei confronti
di una persona cara, invito me stessa e voi a riflettere sulle parole
significative di Catullo.
D. B.
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