mercoledì 20 aprile 2016

La religione dei Germani

Quello della religione presso i Germani era un tema molto importante e complesso e per certi versi si allontanava dall’ideologia dei Galli, ma anche da quella degli stessi Romani. Cesare infatti subito evidenzia una grande differenza rispetto alla tradizione dei Galli, cioè che i Germani non avevano sacerdoti e non credevano nelle stesse divinità dei popoli vicini. Secondo quanto riportato da Cesare, i Germani credevano solo nelle divinità che riuscivano a “vedere”, come Sole, Luna e Vulcano e non erano soliti fare sacrifici di alcun genere. Questa descrizione fornitaci da Cesare è però imprecisa, dal momento che Tacito rivoluziona l’idea che i Romani avevano della religione germanica. Infatti Tacito diceva che Mercurio era uno degli dei più venerati e che a lui venissero offerti sacrifici umani. Ercole e Marte, invece, i Germani erano soliti placarli non sacrifici animali. Inoltre si dice che alcuni Svevi venerassero Iside, divinità egizia.
Sull’origine di questo culto neanche uno come Tacito è riuscito a trovare notizie certe, se non che essendo raffigurata nella forma di una nave liburna, doveva trattarsi di un culto importato. Personalmente penso che sia molto interessante capire come venisse percepita la religione presso un popolo che agli occhi dei Romani era analfabeta e rozzo. Il campo religioso, più degli altri, ci fa capire quanto fosse importante e frequente lo scambio di opinioni, di culture che c’era tra i popoli. Significativo è vedere come cambino i fatti da Cesare, che tende ad elogiare i Romani per la vastità di divinità che veneravano, a Tacito, che scrive un’opera etnografica e non solo storiografica.
 
S. F.
Ancora una volta ci viene presentato un aspetto della vita romana e di quella germanica, sotto due estremi punti di vista. Il primo a parlarcene è Cesare, che descrive i Germani come più distaccati dalla religione. Secondo la sua testimonianza, essi non hanno i sacerdoti né si dedicano a venerare le divinità, ad eccezione di quelle più percettibili come Sole, Vulcano e Luna. Tacito, all’interno del capitolo nono della Germania, contesta la testimonianza di Cesare, sottolineando che i Germani facevano addirittura dei sacrifici umani per Mercurio e di animali per Ercole e Marte, e che praticavano un culto per la dea egiziana Iside. Egli, inoltre, tenta di giustificare il culto straniero precisando che il simbolo della dea fosse una nave, segno di trasferimento culturale. Da un lato si ha il romano Cesare, che tenta di sminuire i culti germanici, dall’altro il germanico Tacito che difende la dedizione della sua Patria. Sebbene così diverse, le due testimonianze ci portano indietro nel tempo ed è interessante analizzare questo confronto.
F. V.
Ragazzi, vi presento un ulteriore aspetto che differenzia la civiltà dei Germani da quella romana, ovvero la religione. Nel “De bello Gallico” Cesare scrive: “I Germani hanno consuetudini molto diverse. Infatti non hanno druidi che presiedano alle cerimonie religiose, né si occupano dei sacrifici. Considerano dei solo quelli che vedono e dal cui aiuto traggono giovamento, come il Sole, la Luna e il Vulcano. Degli altri dei non hanno neanche sentito parlare”. Da questo brano possiamo dedurre che i Germani praticavano una religione ancestrale o animista, vale a dire che solo i corpi celesti e gli elementi della terra erano ritenuti oggetti di culto. Quest’analisi di Cesare, però, è considerata dagli storici imprecisa, superficiale; egli si aggrappa all’imperfezione con il solo scopo di destare nei Romani una sensazione di superiorità assoluta. Fortunatamente Tacito nel nono capitolo della Germania analizza nei minimi particolari tutte le credenze dei Germani e ce le presenta dicendo: “Sopra tutti gli dei onorano Mercurio, cui ritengono lecito, in certi giorni, fare anche sacrifici umani. Placano Ercole e Marte con sacrifici di animali consentiti. Parte degli Svevi sacrifica anche a Iside. Dell’origine e del motivo di questo culto straniero ho potuto accertare ben poco, al di là di un dato, e cioè che il simbolo stesso della dea, rappresentata in forma di nave liburnica, dimostra che il culto è stato importato”.
D. B.
Come vediamo in questa prima testimonianza di Cesare, egli spiega come il culto dei Germani prevedesse divinità naturali invisibili e che rivelavano il proprio potere quotidianamente, come Vulcano, Sole e Luna; questo rispecchia le qualità spesso pragmatiche dei Germani. Tacito invece fa una descrizione più attenta e molto diversa di questa religione barbarica, forse anche per il diverso periodo storico di riferimento, e ci dice quindi che, con mia grande sorpresa, anche ai Germani erano arrivate divinità del Pantheon greco, e poi romano, come Mercurio, al quale dedicano sacrifici anche umani, Marte ed Ercole, ai quali dedicano sacrifici animali. Perfino il culto di Iside era arrivato fino agli Svevi, che la raffigurano con la liburna.
S. S. 
Come ci tramandano sia Cesare nel “De bello Gallico” che Tacito nella sua “Germania”, i popoli germanici erano adoratori di più divinità. La loro religione si mostrava ben articolata e fermamente politeista. Nel IX capitolo della “Germania”, Tacito scrive che loro non avevano una casta sacerdotale, né tantomeno santuari o luoghi sacri, anche se non è del tutto corretto: sono state ritrovate infatti diverse fonti storiche religiose. Esistevano addirittura gli sciamani, figure magiche dotate di particolari poteri, che permettevano di mediare tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti. Apparentemente il politeismo germanico è sorto per influsso della cultura romana. I germani infatti, essendo tendenzialmente nomadi, erano divisi in tanti gruppi e in pratica ciò che avrebbe accomunato le diverse genti culturalmente e religiosamente, sarebbe stata proprio la romanizzazione.
L. P. 
 
I popoli germanici, come ci tramandano sia Tacito nella sua “Germania” che Cesare nel “De bello Gallico”, erano adoratori di più divinità e quindi politeisti. Questa è l’unica caratteristica che avevano in comune con la religione romana. La religione germanica era molto semplice e di carattere naturalistico, come spesso accade ai popoli nomadi abituati ad osservare e temere i misteriosi fenomeni naturali. I loro dei si identificavano dunque con le forze della natura e potevano perciò essere buoni o cattivi. Veneravano ciò che potevano vedere (Sole, Luna, Vulcano). A loro dedicavano molti rituali e sacrifici, non solo animali ma anche umani, a differenza dei Romani. Quest’ultimi credevano, invece, in molte più divinità, divinità mai viste. Avevano la capacità di vedere oltre le cose materiali e visibili. I Germani inoltre non avevano sacerdoti, ma sciamani capaci di mediare tra il mondo dei vivi e quello dei morti e con dei poteri sovrannaturali. Credevano nella magia e nella possibilità che, dopo la morte, il corpo sopravvivesse aggirandosi nei pressi del luogo della sepoltura, proteggendo la propria gente. Credevano negli spiriti e nella loro potenza. Per i Romani, invece, rimanere sulla terra era una punizione, una conseguenza alla mancata sepoltura del corpo. Un’altra differenza è che i Germani sentivano realmente l’unione che legava il fedele alle divinità, mentre per i Romani il culto dei loro dei era più che altro un compito che dovevano svolgere. Pochi avevano realmente fede. Come oggi d’altronde. Molti nel XXIesimo secolo sono atei, non credono in qualcuno o in qualcosa superiore a noi esseri umani, non credono che il loro destino è in realtà nelle mani di qualcun altro e non nelle loro. Non credono che siamo qui per una ragione che va ben oltre la nostra comprensione. Sono atei perché è più facile non credere in niente ed aggirare quelle domande a cui nessuno può dare una risposta, piuttosto che avere fiducia in qualcosa che non si conosce, cercando di rispondere a quelle domande. Nell’antichità era il contrario. Pur di rispondere a quelle domande, i popoli creavano dal nulla degli dei che amavano più di sé stessi. Li creavano perché altrimenti si sentivano persi. Questo fino a quando il progresso e la presunta “superiorità” degli uomini ha rovinato tutto.
A. L.

venerdì 15 aprile 2016

Un giorno al Colosseo: il destino dei cadaveri dopo lo spettacolo

Del libro “Un giorno al Colosseo”, come capitolo da leggere, ho scelto “Il destino dei cadaveri dopo lo spettacolo”. Parla della fine che fanno i corpi degli uomini e degli animali dopo gli spettacoli, quando il Colosseo si svuota e ovunque l’aria è impregnata di morte.

Ovviamente dopo tutti i combattimenti c’è una grande massa di corpi da eliminare. La cosa più facile da fare sarebbe stato un grande rogo di massa in città, ma sarebbe stato troppo pericoloso. La seconda opzione era quella di trasportare su un carro tutti i cadaveri e successivamente buttarli in una fossa comune, ma lo Stato voleva mantenere la differenza tra le classi sociali anche dopo la morte, per questo era impossibile depositare nella stessa fossa di un gladiatore il corpo di un individuo ucciso nelle esecuzioni di mezzogiorno. Ecco perché esistevano i “collegia”, un insieme di famiglie che donavano contributi per la sepoltura dei loro cari. Il destino più crudele che potesse avere un cadavere era quello di non essere sepolto, infatti se su un corpo non venivano lanciati almeno tre pugni di terra, allora il morto era costretto a rimanere con l’anima nel mondo dei vivi. L’assenza di sepoltura era destinata a coloro che avevano ucciso un membro della loro famiglia. Chi si era macchiato di omicidio, non legato alla propria famiglia, da morto era destinato ad essere gettato nel fiume Tevere. Per il popolo era un modo per liberarsi di tutto quello che era legato all’omicida. Molti imperatori hanno subìto la stessa fine, come Vitellio nel 69 ed Eliogabalo, condannati dal popolo. Alcuni cadaveri poi, dicono che siano stati dati in pasto alle belve, come spesso faceva Caligola in mancanza di cibo, e non solo lui. Tra tutti i gladiatori, solo pochi potevano avere una meritata cerimonia di sepoltura. Venivano unti con degli olii e lasciati riposare su un letto, ricoperti di fiori, successivamente venivano cremati e la cenere era sepolta. Erano gladiatori che avevano guadagnato e avevano fatto guadagnare molto al proprio padrone. I cristiani invece, poiché si rifiutavano di partecipare al culto dell’imperatore, venivano accusati delle più gravi colpe e condannati ad una morte che distruggeva la loro speranza della resurrezione del corpo. Il loro corpo veniva infatti tagliati in pezzi, alcuni arti venivano sbranati dai cani, altri seppelliti, altri ancora bruciati in modo che la cenere potesse essere sparsa ovunque.
Molti erano anche gli animali morti dopo gli spettacoli e quelli inferiori ai 90 Kg venivano trasportati insieme ai corpi destinati al fossato. Gli animali morti dopo la caccia nell’arena, invece, venivano dati in pasto agli animali addestrati per lo spettacolo. Il resto veniva lasciato nel Colosseo. Si formava così una massa enorme di animali morti, che dava vita a varie malattie. Dovevano perciò cercare un modo per sbarazzarsene. Il più facile era dare al popolo la carne di questi animali. Gli aristocratici, gli artigiani e i commercianti non avrebbero mai accettato questo tipo di carne, perché la classe sociale a cui appartenevano non glielo permetteva, e inoltre avevano abbastanza denaro per comprare carne abitualmente. Il popolo invece era così povero che ogni mese l’Impero distribuiva gratis sacchi pieni di grano, che superavano di poco i 30 Kg, oltre al vino e all’olio. Per questo il popolo era ben contento di poter ricevere questa carne. Però il metodo di guadagnare la carne di questi animali morti dopo lo spettacolo non si basava sulla filosofia del “chi primo arriva meglio alloggia”. Durante lo spettacolo, infatti, venivano lanciate sugli spalti delle palline di legno con un numero; alla fine dello spettacolo, le persone si recavano al banco e ognuno ritirava il premio corrispondente al proprio numero, in modo che né il più furbo né il più forte avessero la possibilità di accaparrarsi il pezzo migliore. Era anche, forse, per questa distribuzione di cibo che il popolo amava i giochi del Colosseo.
Non capisco e non capirò mai come tutta questa violenza (caratteristica principale degli spettacoli del Colosseo) potesse tanto interessare. Non credo infatti che guardare più persone uccidersi tra loro o uccidere altri animali possa essere piacevole o addirittura divertente.
A. L.

giovedì 14 aprile 2016

Plinio, il Vesuvio e... noi della II A!

Sono rimasto molto stupito dalle immagini del documentario, per quanto sapessi che c’era stata una violenta eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., non immaginavo che potesse colpire con tanta violenza e rapidità. Sicuramente la popolazione non aveva idea del reale pericolo che correva, né sapeva che un’eruzione di quel tipo sarebbe potuta procedere anche per vari giorni con intervalli lunghi, ma il fatto che alcuni potessero pensare di poter tornare a casa così presto, dopo quell’imponente fenomeno, mi ha lasciato abbastanza allibito. 
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Sono stato invece favorevolmente sorpreso da come una così grande curiosità scientifica avvolgesse Plinio, tanto da spingerlo fin sotto il vulcano e farlo restare così a lungo lì, solo per capire e vedere da vicino questo magnifico e terrificante fenomeno. Anche il lavoro di Plinio il Giovane ci è stato utile, poiché senza di lui non avremmo potuto ricostruire gli avvenimenti con così grande accuratezza; credo che questa famiglia di “scienziati” dell’epoca ci abbia dato gli strumenti per comprendere non solo il dolore di questi avvenimenti, ma anche la loro celata bellezza e l'importanza primaria che essi hanno avuto nello studio della vulcanologia antica e quindi di riflesso in quella attuale. Questo è sicuramente un dato inestimabile.
S. S.

mercoledì 13 aprile 2016

Plinio, il Vesuvio e... noi della II A!

Il Vesuvio è uno dei vulcani più famosi del mondo. È alto 1281 m ed ha alle sue spalle millenni di storia. Quando ne abbiamo parlato in classe, il mio stupore era legato al fatto che, pur avendolo sempre davanti agli occhi, non mi sono mai resa conto di quanto fosse importante. Per più secoli è stato definito un “locus amoenus” (luogo felice, sereno) da alcuni dei più importanti autori latini, come ad esempio Seneca, Virgilio e Plinio il Vecchio.
Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=34848949
 
 
Quest’espressione latina indica il tòpos di un luogo ideale, collocato in un perfetto mondo naturale e totalmente estraneo al caos del mondo cittadino. Dunque molti nella storia hanno apprezzato e amato il Vesuvio. Ma perché? Beh, il motivo pare così ovvio, eppure confesso che non avevo molte informazioni a riguardo, almeno fino a ieri. Cominciamo col dire che alcune delle più grandi risorse del vulcano erano per uso strettamente quotidiano. Era di fatto amato per i grandi giardini e le grandi distese di terra fertile, per le coltivazioni, la coltura delle viti e le importantissime zone residenziali di lusso per i patrizi romani. Inoltre ritroviamo le sue ceneri e la pietra di tufo nelle più antiche strutture delle città che lo circondano e tuttora il Vesuvio è rappresentato come simbolo della città di Napoli nelle migliori cartoline.
Dal punto di vista storico, è chiaramente molto importante la data del 24 agosto del 79 d.C., quando ci fu l’eruzione che è senza dubbio la più nota non solo del Vesuvio, ma anche di tutti i vulcani del mondo. È raccontata in modo dettagliato da Plinio il Giovane in due lettere destinate a Tacito. Fino a quel giorno, il Vesuvio era considerato un mons, un vulcano spento, reso attivo solo dopo una scossa di terremoto. Nelle lettere viene raccontata la morte di Plinio il Vecchio, che partito da Capo Miseno, giunge con una nave in soccorso della cugina e di altri familiari. L’eruzione ebbe inizio con l’apertura del condotto, seguita da una serie di esplosioni. Questa fase dell’eruzione si protrasse circa fino al mattino successivo, determinando la distruzione totale dell’area di Ercolano, Pompei e Stabia: una vera catastrofe per tutti gli abitanti.
Oggi si guarda il Vesuvio sotto tante prospettive diverse. C’è chi lo fa da lontano, chi da lati opposti e chi invece lo guarda da più vicino. Fatto sta che chi ha la fortuna di appartenere alla sua terra, lo definisce possente, maestoso, onnipresente; gli altri lo identificano come una minaccia, un giustiziere, un pericolo, per il fatto che magari un giorno potrebbe punire noi e la nostra amata terra. Non ho mai capito il perché di quest’odio incondizionato. Sarà per la magnificenza e l’immensità o probabilmente per il fatto che il mare che lo bagna e tutta la costa sono sempre toccati da raggi di sole. A Napoli si racconta che il giorno in cui la città fu creata, fu San Gennaro a supplicare Dio che, stanco per tutto il lavoro che la creazione del mondo aveva comportato, decise di fare in un modo più veloce: prese un pezzo di Paradiso e lo collocò proprio nella terra che oggi abitiamo. Forse per questo l’invidia altrui è assolutamente prevedibile!
L. P.

venerdì 8 aprile 2016

Un giorno al Colosseo: l'addestramento dei gladiatori

Diventare gladiatore significava appartenere a una familia gladiatoria, alla quale si affidava la propria vita attraverso un giuramento solenne, cioè il sacramentum. I gladiatori si consacravano alle divinità dell’Ade, poiché queste ultime decidevano se accoglierli o meno nel loro regno. Essi inoltre giuravano sotto costrizione, perché erano il più delle volte schiavi che si segnalavano per la loro abilità nel duellare. Non tutti però venivano costretti, c’era anche chi lo faceva spontaneamente dopo aver stipulato un patto con il lanista. In questo patto venivano stabiliti i periodi in cui dovevano esibirsi e soprattutto il loro compenso. Durante il periodo in cui venivano affidati al lanista, i gladiatori vivevano all’interno di una caserma, dormivano in una cella e mangiavano in una mensa comune. Esistevano sicuramente più di cento scuole in tutto l’Impero, le più famose sono quelle di Nimes, Pergamo e Arle.

A Roma ne ricordiamo tre, che erano gestite dai procuratores. Il direttore del ludus magnus, la scuola più importante di Roma, guadagnava fino a 200.000 sesterzi l’anno. Esse si trovavano nelle vicinanze del Colosseo per facilitare gli spostamenti, le altre scuole invece erano gestite dai lanisti privati. Le tre scuole a Roma erano il “Ludus Dacicus”, il “Ludus Gallicus” e il “Ludus matutinus” in cui venivano addestrati i gladiatori che avrebbero combattuto con le belve feroci. I gladiatori erano seguiti e curati ovviamente da medici molto preparati, tra cui Galeno, il più importante dell’epoca. I novicii, cioè quelli ammessi che risultavano idonei, erano preparati a combattere dai lanisti. Se ci immedesimiamo nella vita di Roma antica, possiamo paragonare la figura del gladiatore a quella di un moderno calciatore, in quanto rappresentava  una sorta di idolo in cui il pubblico si immedesimava, inoltre i gladiatori guadagnavano moltissimo denaro ed erano una fonte di investimento per i procuratores, come accade oggi per le squadre di calcio nei confronti dei giocatori.
EGJP

giovedì 7 aprile 2016

Un giorno al Colosseo: la vita sentimentale dei gladiatori

I gladiatori erano considerati pieni di fascino e virilità. Ad essere colpite da queste doti erano le donne di qualsiasi rango, che esprimevano i loro sentimenti con dediche sulle mura della scuola gladiatoria, magari di notte, quando non c’erano molte persone per strada e la città era più tranquilla. Molti artisti ritenevano riprovevole il comportamento dei gladiatori, che seducevano tante donne, ed esprimevano questo disprezzo con varie opere d’arte.
 
Simbolo di lussuria ad esempio è una statuetta di un gladiatore, conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, con un pene enorme, rivolto verso la bocca di un cane pronto a castrarlo. Per molte donne, l’innamoramento era passeggero, altre invece erano protagoniste di vere storie d’amore. Eppia, moglie di un senatore, fuggì ad esempio con il gladiatore Sergio; Faustina, moglie di M. Aurelio, fu costretta a fare il bagno nel sangue dell’amato gladiatore, e Messalina, nota prostituta del tempo, si concesse a vari gladiatori. Una questione importante è poi se le donne dormissero nella caserma con i gladiatori. Tra le ceneri di Pompei, gli storici hanno trovato dei gioielli femminili e sono tre le ipotesi: potevano appartenere ad una delle amanti dei gladiatori, potevano essere di una donna in fuga dall’eruzione del Vesuvio oppure di una prostituta.
F. V.

martedì 5 aprile 2016

Un giorno al Colosseo: le gladiatrici

Le donne romane non potevano rinunciare ad essere protagoniste anche in alcuni spettacoli della vita pubblica, che a quei tempi aveva nel Colosseo uno dei luoghi principali; così, grazie alla loro volontà, riuscirono a prendere parte ai combattimenti e assunsero il titolo di “gladiatrici”. Ovviamente questa attività non riguardava molte donne, né era ammirata da tutte; vi erano sia gladiatrici con una tale passione da scendere volontariamente nell’arena, sia gladiatrici che non avevano via d’uscita e venivano costrette ad imbracciare le armi. Sfortunatamente gli storici non sono riusciti a risalire con esattezza al primo combattimento tra donne, ma vi sono alcune informazioni: a Ostia un organizzatore affermava di essere stato il primo ad averle inserite nella vita pubblica, ma in realtà si suppone che il primo combattimento abbia avuto luogo ai tempi di Nerone e non si trattava solo di donne prese tra gli schiavi, tra gli stranieri e i cittadini più poveri, bensì anche di donne vicine all’ambiente dei senatori.
Inoltre l’imperatore Domiziano, amante degli effetti speciali, organizzò uno spettacolo notturno nel quale le gladiatrici duellavano contro dei nani, sotto la luce delle torce. A dirla tutta, questi spettacoli raramente suscitavano una vera e propria ammirazione, erano piuttosto oggetto di curiosità e scherno. Uno di questi casi è iscritto sul bassorilievo di Alicarnasso risalente al I o al II d.C. e conservato nel "British Museum". Si tratta del combattimento tra “Amazzone e Achillea”: la prima ricordava agli spettatori le leggendarie donne guerriere, le Amazzoni; mentre la seconda era la variante femminile di Achille. Entrambe sono raffigurate con le stesse armi dei loro colleghi uomini, manca solo l’elmo. È probabile che la scena rappresenti un momento particolare: le due donne sono sormontate dalla scritta “apeluthesan”, ovvero le gladiatrici si erano battute con coraggio ed erano uscite con onore dall’arena. Però ai veri appassionati dei ludi gladiatorii, come Giovenale, non piaceva affatto veder combattere le donne. In particolare, l’imperatore Settimo Severo reputava quegli spettacoli addirittura un’offesa, così intorno al 200 li proibì.
D. B.

lunedì 4 aprile 2016

Un giorno al Colosseo: le naumachie

Le naumachie erano spettacoli dall’impianto grandioso, che si tenevano nei grandi anfiteatri e che attiravano decine di migliaia di spettatori. Durante l’inaugurazione del Colosseo, per cento giorni furono tenuti spettacoli, tra cui le naumachie. In quest’occasione l’anfiteatro fu riempito con l’acqua e furono fatti entrare animali addestrati per giochi in acqua, con lo scopo di meravigliare gli spettatori facendo vedere come l’Impero Romano fosse talmente potente da non essere ostacolato da nessun vincolo naturale, sfidando così le leggi della natura.
© Google immaginiTuttavia le prime naumachie risalgono a Cesare, che fece ricavare un lago artificiale nei pressi del Campo Marzio, in cui organizzò battaglie navali. In quell’occasione però ci furono molti morti e così dopo tre anni il lago fu interrato per evitare epidemie. La più grande naumachia si ebbe nel 52 d.C. sotto l’imperatore Claudio, quando i combattenti dissero: “Ave Caesar, morituri te salutant” e Claudio rispose: “aut non”; i guerrieri si ribellarono, poiché pensarono che li volesse uccidere, ma l’imperatore riuscì a convincerli a combattere con minacce e promesse. L’ultima naumachia di cui abbiamo fonti certe è quella di Filippo l’Arabo nel 247, ma non si conoscono né le dimensioni del lago né l’entusiasmo del pubblico.
Leggere dell'esistenza di questi spettacoli mi ha emozionato molto, perché sono una prova di quanto l’Impero Romano fosse potente.
 
EGJP

 

domenica 3 aprile 2016

Un giorno al Colosseo: il prestigio dei gladiatori

In questo brano, relativo al prestigio dei gladiatori, si evince chiaramente l’importanza che essi avevano all’interno della società. Erano eroi ed esempi per il popolo romano, sebbene disprezzabili per la loro provenienza e per il loro ceto, poiché preservavano intatte le antiche virtù che gli antenati avevano da sempre tramandato, ma che nell’ultimo periodo dell’impero si erano perse, come: fortitudo, disciplina, constantia, patientia, contemptus mortis, amor gloriae e cupido victoriae.
 
Molto interessante è la testimonianza che Cicerone ci lascia sui gladiatori. Infatti, per quanto li disprezzasse, li considerava superiori ai suoi avversari politici, poiché i primi non vacillavano né si presentavano vili davanti alla morte o alla sconfitta, al contrario dei secondi che erano da lui considerati i più grandi esempi di viltà e vergogna. 
All’epoca, infatti, l’ammirazione per gli eroi nelle arene era affiancata al loro disprezzo e, come ci riporta Tertulliano, autore cristiano che scrive durante gli ultimi secoli dell’impero, crea grandissima incoerenza nel popolo. Citando le esatte parole di Tertulliano in traduzione, il popolo “amava quelli che condannava e disprezzava gli stessi che applaudiva”. 
In questo stato di incoerenza è particolarmente sorprendente come però alcuni autori e gran parte della popolazione, non solo di ceto basso, appoggiassero i gladiatori. Tra questi Seneca, che li dipinge quali uomini d’onore che secondo il loro giuramento servono lealmente il loro padrone e  riescono perfino a guadagnarsi fama all’interno dell’arena con la loro forza, con il loro valore e con il loro zelo, rendendoli addirittura esempi per gli uomini saggiImparando dal nostro passato e dai nostri predecessori, forse anche noi potremmo aprire gli occhi all’ammirazione perfino di coloro che spesso ricevono solamente amaro disprezzo. 
 
S. S.

sabato 2 aprile 2016

Un giorno al Colosseo: la provenienza, i costi e i prezzi dei gladiatori

Prima delle vacanze di Pasqua, il prof di latino e greco ha proposto ad ognuno di noi di leggere un capitolo del libro “Un giorno al Colosseo” di Fik Meijer. Se devo essere sincero, all’inizio l’idea di parlare dei gladiatori non mi ha coinvolto molto, tuttavia ho scelto due capitoli: “La provenienza dei gladiatori” e “Costi e prezzi dei gladiatori”.
 
In realtà poi, leggendo pagina dopo pagina, non riuscivo a staccare gli occhi dal testo, e la cosa più bella è che ero talmente preso dalla lettura, che non mi interessava più di quello che accadeva intorno a me; dovevo leggere quelle pagine fino all’ultima parola! Come vi ho detto, il primo capitolo tratta la provenienza sociale dei gladiatori e sinceramente mi ha molto colpito il fatto che, a volte, anche persone importanti come senatori, cavalieri, ma anche gli stessi imperatori potevano partecipare come gladiatori agli spettacoli! Ma andiamo con ordine: la prima cosa che bisogna dire è che principalmente i condannati per pene gravi (lesa maestà, omicidio, etc…) invece di ricevere la pena di morte, venivano condannati ad essere gladiatori (ad ludum gladiatorium), venendo addestrati da un lanista. Potevano diventare gladiatori anche dei volontari, che per vari motivi si offrivano per mostrare il loro coraggio, per ricominciare, mettendosi alle spalle un passato da dimenticare, ma anche - come nel caso di un certo Siside - per racimolare soldi per liberare dalla schiavitù un suo caro amico. Inoltre anche alcuni aristocratici potevano esibirsi senza seguire l’addestramento previsto per i gladiatori. In più occasioni gli imperatori cercarono di impedire agli aristocratici di dedicarsi a queste attività, ma con scarso successo. A volte però succedeva il contrario, cioè che l’imperatore costringeva qualcuno a combattere: ad esempio Caligola, visto che un uomo offese sua madre Agrippina, lo spedì nell’arena, e nonostante fosse uscito vincitore dall’arena, lo fece uccidere. Nerone addirittura fece combattere 300 senatori contro 400 cavalieri. Caso ancora più particolare era quando proprio gli imperatori combattevano: un esempio potrebbe essere quello di Commodo, il cosiddetto imperatore-gladiatore, che si faceva chiamare “Ercole Cacciatore”. Ovviamente gli scontri che vedevano coinvolto Commodo risultavano essere ridicoli, dal momento che nessun gladiatore avrebbe mai potuto anche solo colpire l’imperatore. Egli combatteva contro animali feroci, uccidendoli al primo colpo, perché di lui si poteva discutere tutto, tranne la sua precisione. In alcuni episodi, pur di non apparire al popolo inferiore ad un altro gladiatore, lo faceva uccidere.
Il secondo capitolo mi interessava fin dal primo momento e posso confermare, soddisfatto, che ha rispettato le mie aspettative. Il tema è quello del prezzo e dei costi di ogni gladiatore. In età imperiale, visto che accorrevano in molti a guardare gli spettacoli, Marco Aurelio in periodi in cui i soldi scarseggiavano, decise che una parte del ricavato dello spettacolo spettasse allo Stato. Ma ben presto i senatori cancellarono questa decisione. In “Un giorno al Colosseo”  l’autore parla di quattro categorie di gladiatori e quattro tipi di spettacoli, che andavano da semplici eventi a veri e propri “show”. A Roma i maestri delle scuole gladiatore di solito per gli spettacoli si rivolgevano ad un procurator munerum. La maggior parte di questi sono anonimi, uno dei pochi fu Prosene, la cui carriera è stata ricostruita grazie alle iscrizioni presenti sulle tombe. Le cifre pagate dall’organizzatore di solito andavano nelle tasche del lanista. Da ciò si può dedurre che con il ricavato degli spettacoli, i gladiatori non riuscivano a guadagnarsi da vivere, se non in casi eccezionali, come quello di Spiculus, gladiatore al quale Nerone regalò un palazzo intero. Solitamente però si trattava di eccezioni, ma in realtà di solito il lanista col gladiatore stipulava un accordo sull’incasso da guadagnare (di solito al gladiatore spettava il 15-20%). Quando poi i gladiatori si ritiravano, di solito o lavoravano nella scuola gladiatoria come maestri o facevano qualche lavoro ad esso connesso (addetto alle pulizie, guardiano). Rappresentavano eccezioni coloro che riuscivano a vivere di rendita o che venivano ingaggiati come guardie del corpo dei ricchi. In questo capitolo mi sono soffermato a lungo sulle parole di Seneca, che considerava i gladiatori “buoi, che il lanista ha il compito di far ingrassare, per poi macellarli”. C’è da dire che Seneca odiava questo tipo di “distrazioni”, ma sono rimasto sorpreso quando ho letto che un filosofo così importante ha usato tali termini per parlare dei gladiatori.
Concludo consigliandovi la lettura di questo libro e spero di avervi trasmesso qualcosa di quello che è questo aspetto così affascinante della vita romana.
S. F.